di Lidia Di Lorenzo

Mentre diventava sempre più una certezza che il fumo fosse dannoso per la salute, provocasse danni a tutti gli organi, al sistema circolatorio, e producesse anche il cancro, si diffuse a Limatola, negli anni settanta, la tabacchicoltura. Niente più grano, niente più granone, né foraggio per le mucche. Tutti i campi furono coltivati a tabacco e tutte le persone di buona volontà, abili o meno abili al lavoro, giovani, vecchi, bambini, tutti impararono l’arte non difficile della coltivazione. L’aiuto delle macchine per la preparazione del terreno era indispensabile, ma le piantine venivano messe a dimora per lo più a mano e vi si dedicavano le donne, abituate da sempre all’ordine e alla precisione. Era bello osservare i campi di tabacco, quando le pianticelle cominciavano a crescere. Tutte in fila, rigogliose, di un particolare colore verde chiaro. Poi una serie infinita di cure. Dalla estirpazione delle erbe infestanti, al risanamento dai parassiti, poi l’innaffiatura costante e infine la raccolta, scientificamente praticata in più riprese, con la selezione delle foglie per grandezza e qualità e lo scarto di quelle eccessivamente danneggiate. La parte più corale del lavoro era però l’infilatura delle foglie, praticata a casa del coltivatore da tutta la famiglia e talvolta con l’ausilio di persone pagate alla giornata. Essa consisteva nel far passare un lungo filo nel picciolo delle foglie tale da formare un festone che veniva poi posto all’aria, ma non al sole, per l’essiccazione. Prima fu fatta a mano, ma poi arrivarono le macchine infilatrici. Quasi tutte le case allora erano affiancate da uno spazio coperto, dove venivano allineati i fili di foglie, che poco alla volta divenivano del colore tipico del tabacco. Una volta essiccate, le foglie venivano ammucchiate a strati nei mezzi di trasporto e via al deposito, dove in cambio della merce i coltivatori ricevevano somme mai viste tutte insieme dai più. Tanto invogliava a ripetere la coltivazione nell’anno successivo.

La coltivazione molto redditizia del tabacco richiamò dalla
Svizzera molti limatolesi che erano emigrati negli anni 50 e lavoravano in
condizioni disagevoli all’estero, in quanto in Italia potevano aggiornare le
loro antiche arti di contadini e guadagnare molto di più. I ricavati furono
utilizzati per costruire case grandi, con riscaldamento, acqua calda e fredda,
cucine alla moda, salotti, e dotate di tutti i comfort che prima l’economia
paesana e anche il lavoro all’estero non poteva permettere. Anche un cospicuo
conto in banca per molti fu possibile.  Per più di dieci anni la tabacchicoltura fu
l’occupazione prevalente della popolazione, poi poco alla volta il prezzo del
tabacco crollò e i compratori pretesero un maggiore scarto alla merce. Venivano
accettate solo le foglie perfette per dimensione e caratteristiche e furono
rifiutati i germogli. Forse anche il consumo di sigarette si era fortunatamente
ridotto, in seguito a convincenti e martellanti campagne pubblicitarie. La
coltivazione scomparve nel giro di pochi anni, lasciando come ricordo, oltre
alla memoria di una insperata ed effimera ricchezza, scheletri di strutture sempre
più fatiscenti, fatte di pali di legno allineati, quelle che una volta
ospitavano le provvide ‘nserte di tabacco.

testo di Lidia Di Lorenzo


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