di Lucia Vitale

“Scendea dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale…

Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ i capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data in premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse ancora viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno…

 Addio, Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restare sempre insieme. Prega intanto per noi, ch’io pregherò per te e per gli altri[1]

E’ questo il passo più struggente e famoso dei Promessi Sposi, la peste a Milano nel 1630.

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero come è noto; ed è noto parimenti che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia”: l’incipit del XXXI cap. dei Promessi Sposi.

Manzoni racconta questa terribile calamità, senza personaggi immaginari, ma servendosi essenzialmente di importanti documenti storici. Cita Giuseppe Ripamonti[2], sacerdote e cronista del tempo che scrisse De peste quae fuit anno 1630, ed anche Il ragguaglio dell’origine e giornali successi della gran peste contagiosa, venefica e malefica nella città di Milano, di Alessandro Tadino[3]. Sulla base di questi documenti Manzoni ipotizza che la peste, nei territori di Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana e Romagna causò circa un milione di morti. All’origine di questa terribile epidemia si registra in quei territori una profonda crisi economica e, secondo Manzoni, gli anni 1627/1628 furono decisivi: una pressione fiscale eccessiva e le cattive condizioni metereologiche diedero un colpo decisivo alla già traballante economia. I disordini che

seguirono e le manifestazioni di piazza condussero alla discesa dei Lanzichenecchi[4], truppe del Sacro Impero Romano, per riportare l’ordine nelle principali città del nord. La peste fu, molto probabilmente, portata dalle truppe tedesche. Anche allora, si dice, si cercò il paziente zero. Dicono che fu un soldato italiano al servizio della Spagna… un certo Antonio Lovato che entrò nel capoluogo lombardo con un fagotto di vesti comprate o rubate ai lanzichenecchi. Il tribunale di sanità milanese fece segregare in casa la famiglia del soldato e ordinò di bruciarne i vestiti e suppellettili ma questo non impedì il dilagare della malattia.

 Dai Promessi Sposi (cap. XXXI): Sia come sia, entrò questo fante sfortunato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi  in una casa di suoi parenti, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto l’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò che era infatti; il quarto giorno morì… Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia… ma il soldato ne aveva lasciato fuori un seminio che non tardò a germogliare. Tutti furono condotti al lazzaretto, dove la più parte si ammalarono e alcuni morirono.

Anche allora, come accaduto nei mesi scorsi, si sottovalutò il rischio del contagio e non si presero immediati provvedimenti. Incuranti degli avvisi pressanti del tribunale della sanità fu celebrata pubblicamente la nascita del primogenito di Filippo IV senza badare ad assembramenti e distanziamenti sociali. Addirittura venne concessa una processione religiosa per invocare l’intervento di S. Carlo. Il Cardinale Borromeo[5] oppose una certa resistenza, ma inutilmente. La processione si tenne l’11 giugno con la partecipazione numerosa di persone e attraversò tutti i quartieri della città.

Fin dal giorno seguente, crebbero i decessi in maniera esponenziale. Alessandro Tadino, membro della Commissione della Sanità aveva più volte paventato scenari di grande pericolosità ma sui governatori Fernandez de Cordoba e poi Ambrogio Spinola prevalsero le esigenze di natura economica in quanto si registrava un forte calo della produzione di manifatture italiane che saranno, in seguito, sostituite da quelle delle fiandre. Anche allora, con il propagarsi dell’epidemia, ci fu bisogno di “un supercommissario”; era il cappuccino Felice Casati [6] che, secondo Manzoni, assunse un ruolo fondamentale nella gestione del lazzaretto. Era dotato di pieni poteri economici, organizzativi e giudiziari ”sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte. Minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime”. Era circondato e supportato da monaci che si sottoponevano a turni massacranti e che pagavano con la vita l’amore per i più deboli. E’ il momento in cui si vede” la pietà cozzar con l’empietà”. Ancora il suo collega Michele Pozzobonelli che si rese disponibile ad una richiesta disperata dei magistrati e della sanità (la sepoltura di migliaia di cadaveri lasciati per le strade) reclutando 200 contadini e ancora il contributo di 60 parroci che accettarono di curare i malati al prezzo della vita (ne morirono otto noni).  Si costruirono velocemente strutture di accoglienza improvvisate per i tanti malati. Spesso erano capanne di paglia o strutture improvvisate per l’aumento dei tanti contagiati. Il lazzaretto, reso famoso dalle pagine del Manzoni, era gestito da un piccolo gruppo di monaci e suore con il consenso del cardinale di Milano.

Dal cap.XXXI:

Nel lazzaretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservare le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin dai primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi.

L’estate ed il caldo moltiplicarono i contagi e il numero dei decessi da 500 al giorno arrivarono a 1200/1500 e la popolazione del lazzaretto raggiunse ben 12.000 contagiati.

Erano i monatti gli addetti al recupero dei cadaveri o al trasporto dei malati al lazzaretto. Uomini al sevizio del Tribunale della sanità ed erano immuni al contagio ma spesso criminali di pochi scrupoli che depredavano i morti e i malati. Indossavano vistosi abiti rossi che li rendevano riconoscibili e portavano al piede un campanello che segnalava la loro presenza.

Nei Promessi Sposi Renzo li incontra in giro per Milano: “Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s’avanzava, e si fermò lì per lasciarla passare. Erano ammalati che venivano condotti al lazzaretto; alcuni, spinti per forza, resistevano invano, invano gridavano che  volevano  tornare nelle loro case a  chi li guidavano… donne coi bambini in collo, fanciulli spaventati dalle grida… più che dal pensiero della morte, i quali ad altre strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e casa loro”(cap. XXXIV).

La diffusione della peste, ormai non più controllabile, fece nascere e diffondere la credenza che alcuni uomini spargessero unguenti per diffondere la peste e tale superstizione trovò conferma anche nelle teorie di alcuni scienziati dell’epoca. Molti illustri medici confermarono l’esistenza degli untori e della peste anche come conseguenza dell’apparizione di due comete nel 1628 e 1630.

Emblematica fu la vicenda di Giangiacomo Morra e Guglielmo Piazza di cui Manzoni ricostruisce la vicenda giudiziaria nella Colonna Infame.

Traduzione dal latino dell’iscrizione della lapide apposta nei pressi della colonna infame, attualmente la lapide si trova al castello Sforzesco di Milano, sotto il portico della Rocchetta.

Qui, ove s’apre questo largo, sorgeva un tempo la bottega del barbiere

Gian Giacomo Morra

Che, ordita con il commissario della pubblica sanità Gugliemo Piazza

E con altri una cospirazione,

mentre un’atroce pestilenza infuriava,

cospargendo diversi lochi di letali unguenti

molti condusse ad un’orrenda morte.

Giudicati entrambi traditori della patria,

il senato decretò

che dall’alto di un carro

prima fossero morsi con tenaglie roventi,

mutilati della mano destra,

spezzate l’ossa degli arti.

Intrecciati alla ruota, dopo sei ora sgozzati.

Bruciati e poi,

 poichè di cotanto scellerati uomini nulla avanzasse,

confiscati beni,

le ceneri disperse nel canale.

Parimenti diede ordine che

Ad imperituro ricordo

La fabbrica ove il misfatto fu tramato

Fosse rasa al suolo

Né mai più ricostruita;

sulle macerie eretta una colonna

da chiamare infame.

Probi cittadini

 Che un esecrando suolo

 Non abbia a contaminarvi.

Addì I agosto 1630

(sen. Marcantonio Monti prefetto della pubblica sanità, Giovanbattista Visconti capitano di giustizia)

[1] Alessandro Manzoni, I promessi sposi-cap. xxxiv

[2] Giuseppe Ripamonti, presbitero e storico italiano (1573/1643)

[3] Medico italiano (Milano 1580/1661)

[4] I lanzichenecchi(dal loro nome tedesco Landsknecht) erano soldati di fanteria, arruolati da Legioni tedesche del Sacro  impero romano

[5] Cardinale Borromeo(1538/1584)compatrono di Milano insieme con Sant’Ambrogio.

[6] Felice Casati, frate cappuccino e personaggio storico milanese. Dopo essere guarito dalla peste, fu inviato a Madrid per ottenere da Filippo IV un alleggerimento delle tasse.

testo di Lucia Vitale

Melchiorre Gherardini, Piazza San Babila a Milano durante la peste del 1630  (Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)

Storia della colonna infame, Francesco Gonin, per l’edizione del 1860


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