di Lucia Vitale

   Le epidemie passate e contemporanee amano la globalizzazione, vengono da lontano, percorrono lunghe distanze e omologano territori e popoli diversi. I comportamenti degli scienziati, dei governanti e del popolo tutto sono sempre gli stessi, non impariamo mai, non affrontiamo con efficacia la malattia fin quando quest’ultima non ci travolge.

Anche allora la peste nera (1346), come oggi, viaggio’ dalla Cina, dove, si raccontava, morivano da qualche tempo molte persone, in modo allarmante.

 Nel 1346 scriveva il cronista fiorentino Matteo Villani[1]: “cominciossi nelle parti di Oriente, nel detto anno 1346 in verso il Catai e l’India superiore, e nelle altre provincie circustanti, una pestilenza tra gli uomini di ogni condizione e sesso, che cominciavano a sputare sangue, e morivano chi di subito, chi in due o tre dì…”.

L’autore fu lui stesso vittima di questa malattia allora poco conosciuta. Già nel1347 la peste aveva raggiunto Costantinopoli e quasi tutti i porti del mediterraneo orientale. Gli europei avevano da subito intuito che a favorire la diffusione della malattia non erano solo le guerre ma anche la fioritura dei commerci e gli stretti rapporti politici e culturali tra i popoli. Ogni porto o centro di commercio diventava un focolaio che irradiava con velocità impressionante la malattia, soprattutto lungo le tratte del commercio. Da Caffa, in Crimea, con alcune navi, i cui marinai erano già contagiati, l’epidemia raggiunse la Sicilia nell’ottobre del 1347 ed in particolare a Messina dove arrivarono dodici galee genovesi.

Il francescano Michele da Piazza[2] riporta nella sua opera i drammatici avvenimenti: “successe, dunque che, si era nell’anno del Signore 1347, circa all’inizio del mese di ottobre, dodici galee genovesi fuggirono dalla vendetta divina che il Signore fece scendere su di loro e raggiunsero il porto di Messina…essi portavano con sé una così grave forma di peste che chiunque avesse parlato con un membro dell’equipaggio fu vittima della malattia mortale e non potè più sottrarsi in nessun modo alla morte”.

Tutta l’Italia ne fu travolta in maniera drammatica. L’epidemia aveva già raggiunto la Persia, la Caria, l’Armenia, Tarso, la Georgia, la Mesopotamia, la Nubia, l’Etiopia, l’Egitto, la Grecia e poi tutta l’Europa. I sintomi clinici erano gli stessi dappertutto e contemporaneamente anche i rapporti sociali.

Le persone, incontrandosi, provavano nei confronti degli altri sentimenti di paura e di sfiducia. In pericolo non erano solo il commercio e l’economia tutta ma anche le amicizie e i rapporti familiari. Riporta ancora Michele da Piazza: “un padre, di fronte al figlio ammalato, si rifiutava di rimanergli accanto. Se avria il coraggio di avvicinarsi a lui, veniva colpito egli stesso dalla malattia ed era votato alla morte che sopraggiungeva dopo tre giorni. Persino i gatti e gli altri animali domestici lo seguivano nella morte”. Anche sacerdoti e notai furono sopraffatti dalla paura e spesso si rifiutavano di entrare nelle loro case.

Quale fu l’origine di questa pandemia?

La malattia fu provocata dal bacillo della peste, Pasteurella Pestis; l’agente patogeno si annida principalmente in piccoli roditori infetti dalla pulce. Si conoscono due vie di trasmissione di questo contagio: attraverso la pelle e attraverso i polmoni. La più pericolosa era quella polmonare e quasi sempre mortale. In alcuni casi la fine poteva sopraggiungere dopo poche ore. A differenza dell’esperienza del coronavirus, colpiva soprattutto i giovani.

Giovanni Boccaccio[3] riferisce di giovani nel pieno della giovinezza che la mattina si compiacevano della propria salute e “la sera vegnente appresso nell’alto mondo cenaron con li lor passati”.

Quale fu la posizione della medicina di fronte a tale tragedia?

I medici si affidarono alle conoscenze del mondo antico: Ippocrate, Galeno e altri autori del passato. Tommaso del Gerbo[4] fu autore nel 1348 di un Consiglio contro la peste. Per proteggersi dal contagio, allo stesso modo di Galeno, consigliava pane intinto nel vino e la trinca e il mitridato[5], oltre ai chiodi di garofano che, sembrava, avessero un’azione disinfettante.

Nel consiglio contro la peste di Giovanni Dondi[6] si trovano suggerimenti dietetici e terapeutici. Il medico personale del Vescovo di Milano[7] raccomandava il salasso persino sulla testa. L’abluzione del viso e delle mani con acqua di rose e aceto era quotidiana. Dondi raccomandava di esporsi al mattino al fumo di un fuoco bene odorante, bruciando legna di quercia, di frassino, olio e mirto. Tutti i cibi dovevano essere aromatizzati con profumi molto forti. La carne di montone, di castrato, di vitello, di capra, di pernice, di fagiano, di pollo era ritenuta sicura, mentre il pesce pericoloso. Vino e birra venivano vivamente consigliati. Le donne e ancor più “ogni rapporto disonorevole” andavano evitati.

C’era, poi, la corrente edonistica descritta anche dal Boccaccio e da altri autori che hanno un atteggiamento decisamente positivo, “Ridere, scherzare e festeggiare in campagna”,

Il ritiro nella villa di campagna dove ci si dedicava alla musica e al gioco per effetto del riposo rafforzava la capacità di resistenza”.

Più efficace era, invece, un’altra misura già adottata per altre epidemie meno importanti: isolare coloro che erano affetti da malattie sconosciute. Il distanziamento sociale fu, per la prima volta, suggerito e attuato durante questa terribile pandemia.

Venti milioni furono le vittime della peste nera; è comunque certo che questa epidemia

rappresenta, secondo quanto affermato da Egon Frieddel[8] nella sua Storia della civiltà moderna, l’anno del concepimento dell’uomo dell’età moderna.

Oltre l’immane tragedia di milioni di morti, due furono i fenomeni concomitanti con la peste nera: le processioni flagellanti e le persecuzioni degli ebrei.

Già nel 1334, 14 anni prima della peste, Venturino da Bergamo riuscì con una predica a indurre 10.000 persone a prendere parte ad una processione di flagellanti. L’influenza crebbe con la diffusione della peste. Molti pensavano che la fine del mondo fosse imminente; i due fenomeni avevano un rapporto di causalità anche se indiretta: laddove si organizzano le processioni seguirono, nella maggioranza dei casi, i progrom[9]. Erano entrambi sintomi della grande paura e dell’irrazionalità.

Dall’Ungheria e dall’Austria i flagellanti percorsero ampi territori dell’impero, dei Paesi Bassi, della Svizzera e della Francia. Quando nel 1349 la setta dei flagellanti attraversò la Germania, un gran numero arrivò anche a Francoforte. Qui videro che gli Ebrei abitavano nei quartieri più eleganti e non erano toccati dalla  peste. Fecero irruzione nelle loro case, li assalirono e li massacrarono. La cittadinanza, inutilmente, cercò di difenderli. Le persecuzioni degli ebrei, i progrom degli anni 48- 50 “rimasero la più grande singolare azione omicida compiuta in Europa nei confronti della popolazione ebraica”[10]. Dalla cronaca di Guy de Chuliac[11]si apprende che il sospetto di aver avvelenato i pozzi ricadde essenzialmente sugli ebrei, sui lebbrosi e sui poveri. Con il divieto di esercitare la maggior parte delle attività, la maggior parte degli ebrei fu costretto a svolgere la professione di prestatore di danaro, professione ritenuta disonorevole e vietata ai cristiani. Intorno al 1350 molte comunità ebraiche d’Europa erano estinte. Solo in Italia, dove in quasi tutte le più importanti città italiane erano presenti comunità ebraiche, non risultano, per il periodo della peste atti gravi di violenza. Forse il clima aperto delle città commerciali e portuali contribuì a rendere meno plausibile la leggenda dell’avvelenamento dei pozzi. Ma l’incolumità degli ebrei italiani dimostra anche che la peste non può essere stata la causa determinante dei progrom in quanto in nessun luogo la peste, allora come ora, fu così terribile in Italia. Dopo il1349 il nostro paese diventò la terra d’immigrazione preferita per gli ebrei provenienti dal nord.

La peste nera sconvolse la cultura, la morale, la coscienza religiosa degli europei e provocò una crisi economica che durò fino al xv secolo. Imponente fu il crollo demografico e alcuni ne apprezzarono le apparenti conseguenze positive in quanto si registrò un incremento del capitale medio pro capite e di posti di lavoro. Matteo Villani, cronista fiorentino, così descriveva la situazione: che gli uomini, tovandosi pochi e abbondanti per eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate, come se state non fossero, si diedero alla più sconcia e disordinata vita che prima non avevano usata…..e il popolo minuto, uomini e femmine, per la soverchia abbondanza che si trovavano delle cose, non volevano lavorare agli usati mestieri”. In questa gran quantità di ricchezze non solo rientravano i beni dei cristiani morti ma anche degli ebrei uccisi o cacciati via. Una maggiore redistribuzione della ricchezza provocò una grande trasformazione sociale: la formazione e l’ascesa del ceto medio e la fine del Medio Evo.           

Ad se ipsum

Richiamo alla mente i tanti cari amici perduti e i loro affettuosi colloqui, e l’improvviso svanire dei loro dolci volti, e i cimiteri che ormai non bastano alle continue sepolture. Questi lutti geme il popolo d’Italia che per tanti morti vien meno; questi piange la Gallia stremata e priva di abitanti; questi gli altri popoli, sotto qualsiasi ciel abitino, o sia ira di Dio- e certo crederei che la meritino i nostri peccati, o soltanto rovina che a noi viene dai cieli, per il variare delle vicende naturali. Quest’anno pestifero incombe sul genere umano e minaccia luttuosa strage, e l’aria densissima favorisce la morte… Le spietate Parche si affrettano a spezzare i fili delle vite umane…

Francesco Petrarca      

[1] Matteo Villani (Firenze 1283-1363), Nuova Cronica

[2] Michele da Piazza (XIV sec.), Historia Sicula

[3] Boccaccio(13 giugno1313-21 dicembre 1375), Il Decamerone, confronto tra bene e male, fortuna e natura,eros e amore

[4] Tommaso del Gerbo (1305 Firenze-1370), professore di medicina a Perugia e a Bologna, Consiglio contro la pistolenza

[5] Mitridato era una panacea la cui origine veniva ricondotta a Mitridate VI, re del Ponto, e la cui composizione vantava ben 43 elementi. Fu offerta agli imperatori come rimedio contro gli avvenimenti.

[6] Giovanni Dondi (Chioggia 1330- Abbiategrasso 1388), medico, astronomo, poeta, orologiaio

[7] Sudhoff (domini ducis Mediolanensis  honorabilem  medicus)

[8] Egon Friedde (vienna   gennaio 1878 -marzo 1938), filosofo, storico, giornalista, attore, cabarettista, e critico teatrale austriaco

[9] Progrom è un termine di derivazione russa, con cui vengono indicate le sommosse popolari verso le minoranze religiose, in particolare le sommosse antisemite.

[10] Zinn, biologo e scrittore statunitense (New York 1944)

[11] Guy de Chauliac (Lione1300-1368) medico francese, ritenuto uno dei maestri della chirurgia medievale.

testo di Lucia Vitale

nell’immagine di copertina, Pieter Bruegel il Vecchio, Il trionfo della morte, 1562 circa


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