di Lucia Vitale

Lago e mare, zefiro e bufera

Vento intriso d’infezione e d’infinito

Come diaspora nefanda il male

Inspiegato insemina ogni dove.

Questo è  il tempo della peste

Tempo del caos ,tempo sospeso.

Vagano nel disordine gli infetti

Impera un’inebriante uguaglianza

Non c’e’  piu’ legge, non c’e ’piu’ prezzo

Galeno non ha la medicina per il morbo

Consiglia un’improbabile fuga:

ma la piaga insegue il fuggitivo

E scava una ruga irrimediabile

Nella debole cittadinanza.

Inutile indagare, Lucio, di chi la colpa

Quale il pretesto dell’ira degli Dei:

nell’inizio l’arcano ineludibile destino,

nell’antico tanto piu denso

quanto più’ antica ne è’ l’antichita’.

Vertiginosa l’assenza di senso

Se la colpa è’ il nostro stesso essere.

Hai visto l’infinito augurio

Dell’uccello che si immerge negli abissi

Noi siamo viandanti dell’immondo

Ma non avevamo che la falsa scelta

fra il morire appena generati

O il non venire in nessun modo al mondo.

Nella sua opera “Oedipus”, Bruno Di Pietro intende attuare un confronto tra l’Impero romano e il “nuovo impero”, l’età della globalizzazione della società contemporanea. Nei versi riportati tratteggia i momenti drammatici vissuti durante una delle più grandi tragedie della storia dell’antichità; la peste antonina.

Siamo nel secondo secolo dopo cristo e l’impero, con ‘l’ultima generazione degli Antonini, vive il momento di apogeo della sua esistenza.

Il numero di abitanti è superiore a 1.200.000, l’amministrazione è ben organizzata, sia all’ interno di Roma che nei municipi e nelle colonie, l’esercito, con 360.000 mila uomini, efficiente e ben strutturato, vigila sulla Pax Romana. Lungo i confini sono nati splendidi centri di scambio tra culture, e i cittadini intrattengono rapporti di scambio, grazie anche ad un sistema stradale efficiente. Famoso il detto: “tutte la strade portano a Roma”.

Il filosofo imperatore, Marco Aurelio, profondo conoscitore della cultura greca, finanzia personalmente ben quattro cattedre di filosofia ad Atene, patria della democrazia.

E poi… Roma è costretta ad affrontare il pericolo più temuto, che non si avvale di spada e scudo, non di eserciti; è qualcosa di completamente diverso, è la peste…

I primi decessi collegati alla peste risalirebbero all’estate del 165 a Nisibis, poco prima della conquista di Seleucia, sul Tigri.

Rispetto all’origine di questa a epidemia ci sono più ipotesi:

1) origine cinese, in quanto tra il 110 e il 180d.c si registrano in Cina sei eventi di epidemia che, poi, potrebbe essersi diffusa fino all’impero romano.

2) origine africana, Etiope, e diffusione in Medio Oriente.

E’ difficile stabilire con certezza l’inizio; lo storico Paolo Orosio, biografo di Lucio Vero[1], così ne descrive l’origine e la propagazione:

“gli sembrò che il suo fato portasse una pestilenza in qualunque provincia egli attraversasse durante il suo ritorno, e persino a Roma. Si crede che questa pestilenza originasse a Babilonia, dove un vapore pestilenziale si sviluppò nel tempio di Apollo da una cassetta d’oro che un soldato aveva accidentalmente aperto, e si diffuse,poi, sulla patria e sull’intero mondo”.

E ancora Ammiano Marcellino[2], storico del IV secolo d.c. riferisce: “nel corso del saccheggio di Seleucia, da parte dei soldati di Lucio Vero, da una teca chiusa dalle arti occulte dei Caldei il germe della pestilenza si sviluppa e dopo aver generato la virulenza della malattia incurabile, nel tempo chiamato di Vero e di Marco Aurelio, contamina ogni cosa con contagio e morte, dalla frontiera della Persia, percorrendo tutta la strada fino al Reno e alla Gallia”.  

Un’ulteriore testimonianza è quella di Elio Aristide[3]:

“Mi trovavo nei dintorni di Smirne, in piena estate. Una pestilenza colpì quasi tutti i miei vicini. Quindi tutti furono a letto, giovani e vecchi. Io fui l’ultimo ad essere contagiato. I dottori provenivano dalla città e noi usavamo i loro collaboratori come servi. Persino i dottori si ammalarono. Anche il bestiame si ammalò. Se qualcuno cercava di muoversi, immediatamente, finiva morto davanti all’ingresso”.

Dal 21 dicembre al 21 marzo del 168-169, il medico Galeno[4]era presente con i soldati ad Aquileia, e nell’opera scientifica  ”Methodus  Medendi” riporta: “l’epidemia perdurò per un periodo considerevole e si manifestava con forte aumento della temperatura, evacuazione frequente, flogosi della faringe e formazione di pustole”.

Il focolaio scoppia di nuovo nove anni dopo e, secondo Cassio Dione, causa fino a 2.ooo morti al giorno a Roma, uccidendo un quarto degli infetti.

La peste avrebbe imperversato per quasi trenta anni, facendo tra i cinque e trenta milioni di morti.

Turbati da questa immane sciagura, molti ricorrono agli incantesimi o alle pratiche magiche.

I racconti di Luciano di Samosata[5]riguardo al ciarlatano Alessandro Abonutico[6],fondatore del culto di Glicone che raggiunge una vasta popolarità, sono caratterizzati da una profonda ironia. L’autore prende di mira il falso profeta, ma anche i facili creduloni.

“Tu, forse, o carissimo Celso, credi che mi hai commessa una piccola impresa e lieve, di scriverti la vita di quell’impostore di Alessandro di Abonotechia… mi vien vergogna per entrambi, e per te e per me: per te che credi degno di essere ricordato… per me che gitto il tempo a scrivere questa fastidiosa historia di un uomo che avria meritato di non essere letto da persone colte…”.

Le fonti dell’epoca non riportano particolari misure sanitarie adottate per contenere la diffusione del morbo, fatta eccezione per strani riti sopra riportati, frasi beneauguranti (oggi… tutto andrà bene) incise sulle porte delle case o altre forme di superstizione…

Riferisce, inoltre, che la malattia provocò in tutto l’impero spiacevoli effetti sociali e politici in ogni provincia.

Lo storico Niebuhr[7]afferma: “nel momento in cui il regno di Marco Aurelio ha un punto di svolta in molte cose, soprattutto arte e letteratura, non ho dubbi che questa crisi fosse dovuta a questa peste. Il mondo antico non si riebbe più dal colpo inflitto dalla piaga che lo visitò durante il regno di Marco Aurelio.”

Il canto del gallo. Marco Aurelio a Vindibona

Ho sentito il canto del gallo

Un pallido sole giallo nato già morente

Invade la nebbia che copre Vindibona.

Suonano le acque che trascorrono nel fiume

Mi guardano e mi turbano

Non sono Seneca e non ho LUCILLO

Solo l’acqua fa da specchio alla melancolla.

Così scrivo a me stesso: è terapia

Ribellione alla tirannia del presente.

Oggi sarà un giorno speso bene

Mi curerò di me solo e non di altri.

Ho eluso le guardie.

sono uscito dall’accampamento

per guardare negli occhi il mio tormento:

un vento ineludibile viene da settentrione

lo culla la betulla, l’irrobustisce il pino.

Quanto povera è la filosofia!

Vorrei essere poeta per estinguermi nel canto.

Ho visto il quasi niente e il non ancora

Ora e nell’ora della mia fine.

Marco Aurelio muore il 17 marzo D.C.,probabilmente, per vaiolo, a Vindibona. Le sue ultime parole prima di morire sono: “Perché piangete voi per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune?”

La peste antonina è stata molto più grave e mortale di quanto oggi il COVID-19 e la società che ha colpito meno capace di salvare i malati di quanto lo siamo noi.

L’impero, tuttavia, si riorganizza e va avanti, nonostante sti conoscendo morte e terrore su una scala che nessuno aveva mai visto.

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[1] Lucio Celonio Commodo Vero è imperatore romano e governa insieme al fratello di adozione Marco Aurelio dal 161 al 169 D.C.

[2] Ammiano Marcellino, storico romano di età tardoimperale, scrive le Rerum gestarum XXXI, a partire da Nerva a Valente

[3] Elio Aristide(Adrani 117-185), Encomio di Roma

[4] Galeno di Pergamo(130-201), medico greco di corte di Marco Aurelio e Lucio Vero

[5] Luciano di Samosata è uno scrittore greco del II sec.DC. Le sue opere sono prevalentemente umoristiche e satiriche

[6] Alessandrodi Abonutico(105-170), di umili origini, arriva ad essere titolare di un oracolo ricchissimo,oltre che fondatore del culto di Glicone, che raggiunge una vasta popolarità

[7]Barthold Niebuhr (1776-1831), storico e politico tedesco

di Lucia Vitale

nell’immagine di copertina, Il trionfo della morte di Buonamico Buffalmacco, 1336-1341, Campo Santo di Pisa


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