di Isidoro Pennisi

   Arrivò a Monteleone alla sera della sua vita, anche se ancora non era notte fonda. Veniva giù dal Veneto e aveva una certa fama che lo precedeva, sudata e strappata al tempo, che non gli aveva risparmiato nulla. Fascista non per errore, come molti, che dopo la guerra fecero finta che quei venti anni fossero stati come una nevicata non prevista a una latitudine culturale e antropologica come quella italiana. Aveva fatto tutti quegli anni in un fiato, a un’età in cui avrebbe anche potuto farsi da parte, perché la guerra è per i giovani che ancora sognano d’essere adulti e lui non lo era più. Tra gli ultimi eventi cui prestò le braccia, il cuore e il coraggio, ci fu la ritirata in Libia dopo la disfatta a El Alamein, quando fu fatto prigioniero e mandato in un campo di prigionia negli Stati Uniti. Finalmente un po’ di pace. Finalmente il tempo per scrivere. Spesso la vera libertà è farsi chiudere dentro. Fu lì che entrò in contatto con la letteratura americana: Furore di Steinbeck ed Hemingway. Fu in prigionia, che Giuseppe Berto scrisse numerosi racconti. La prigionia, finalmente, lo rendeva libero. Tornato in Patria, poi, quel suo nuovo mestiere da prigioniero di guerra diventò la sua occupazione permanente e lo fece diventare uno scrittore di successo. Un successo che però non leniva la natura che, secondo lui, uno scrittore porta con sé come un fardello. “Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l’eternità, o con l’assenza di eternità. Io non posso giurare d’essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l’eternità o, peggio, con l’assenza di eternità, la conosco anch’io” Questo duello con l’eternità, portò Berto a soffrire di una patologia definita come nevrosi d’angoscia, che lo perseguiterà per anni. Fu in quella parte finale della sua vita che, in un momento di forte memoria, intuì che cercava una nuova Patria per la sua anima: la Calabria.

Ricordando, un suo veloce passaggio in treno anni prima, rileggendo le testimonianze di Alexander Dumas, raccontate nel suo celebre Viaggio in Calabria, decise di scendere a Monteleone, oggi nota come Vibo Valentia. Un’intuizione non frenata da ciò che si raccontava della Calabria e dalla paura, ad esempio, che proprio a Monteleone e nelle zone limitrofe delle Serre calabresi, si rinnovasse la catastrofe sismica che nel 1783 aveva distrutto interamente quelle zone.

Lui ricordava altro. Aveva ancora vivido il ricordo del passaggio sulla costa con il treno, il suo sguardo dal finestrino che racchiudeva in lontananza il più bel panorama di Stromboli, alle spalle il Tirreno, in apparenza infinito. Un compagno di prigionia calabrese, inoltre, veniva proprio da Nicotera, appoggiata sulla parte terminale di un costone del lungo Promontorio del Poro, che dall’interno si protende sul Tirreno come una Portaerei della Geologia. Quel suo compagno di prigionia, pur essendo un contadino, sapeva molto della sua terra d’origine. Nelle sere in cui la prigionia faceva sentire i morsi della nostalgia, non faceva altro che parlare di Nicotera e dell’ingombrante ammasso di roccia a picco sul mare, che finiva con il Capo Vaticano. Un ammasso di roccia, in verità, non comune. Infatti, esso è geologicamente più antico degli Appennini e delle Alpi, ben più imponenti che quel lembo di roccia, alto appena centoventi metri sul livello del mare. Il granito bianco e grigio di Capo Vaticano è studiato in Geologia perché gli scienziati possono leggervi vicende che risalgono a milioni di anni fa. Capo Vaticano sembra che sia il punto più antico del bacino del Mediterraneo, formatosi in un tempo in cui la terra era giovane e inquieta. Una gioventù e un’inquietudine che, però, sembravano non avessero mai perso nei millenni, visto che Giuseppe Berto, nel leggere il resoconto di Dumas del suo viaggio in Calabria, si era fatto l’idea che quella Terra potesse essere la sua cura. Monteleone era però solo il primo porto urbano d’arrivo. Città posta lungo l’antico e sempre seguito tracciato romano che attraversa la Calabria che, al tempo loro, vedeva in Hipponion (nome precedente di Monteleone e collocata in un sito appena distante) un punto obbligato di passaggio. La destinazione di Giuseppe Berto non era però quella ma Capo Vaticano e Ricadi, dove lo attendeva, quasi sul ciglio dove il Poro strapiomba nel Tirreno, il posto dove vivere. Lo scrittore veneto s’innamorò di Capo Vaticano e, più in generale della Calabria, come può fare solo un forestiero abitando e scrivendo sei mesi all’anno sulla cima estrema di quell’altopiano ventoso.

Il tempo calabrese di Giuseppe Berto mise alla prova il tessuto di ospitalità di questa terra, su un piano diverso dal normale.

In questo caso è la storia, i paesaggi, una certa antropologia ancora radicalmente premoderna della Calabria a consentire a Giuseppe Berto di svolgere uno dei più sinceri e lucidi lavori di autocritica sull’Italia, sui tempi del fascismo, non secondo i tracciati dell’abiura, ma dentro un colloquio intimo con la storia più generale. Un colloquio intimo, che lui trasfigura in un piccolo libro in cui immagina di parlare, seduto di fronte al Tirreno, con un cane, un Cocker Spaniel di nome Cocai. Da soli, sul ciglio di Capo Vaticano, Berto e il cane discutono delle inquietudini che mossero la generazione di Berto.

“Colloqui col cane” è un libro tenero e disperato, dolce e severo: un atto di accusa contro il passato e contro il presente lucido e coerente fino alle conseguenze estreme, è il racconto del destino di una generazione senza pace che si agita inquieta da più di trent’anni. Non è facile trovare una testimonianza più limpida e amara di una sconfitta storica che ha investito tutt’intera una cultura e una vita”. La Calabria gli diede un’ospitalità non generica. La condizione geografica e la fierezza dei suoi paesaggi, furono come un’opera militare di difesa, di una figura difficile del panorama letterario, invischiato con le vicende della prima parte del novecento, che doveva fare i conti anche con un sentire prevalente e colto che disprezzava a priori ogni umanità di valore che avesse sposato la causa di Mussolini. In contrasto con i circoli radical-chic del Paese, in Calabria trovò l’ambiente difeso, che gli permise di ricostruire con buona obiettività e senso critico la vicenda intellettuale e morale del nostro Paese, le sue aporie, le asprezze, il sangue versato.

Fece tutto questo, in maniera anche poetica, leggera, seguendo una volontà di critica granitica come le rocce di Capo Vaticano, molti anni prima che Giampaolo Pansa mise mano con coraggio intellettuale a quelle vicende.

“Che si vive a fare se si rinuncia alla verità? La storia di un Paese è fatta da chi ha combattuto guerre sbagliate, cercato traguardi assurdi. Occorre accettare questo, e onorare chi ha sofferto, non per forza condividerne la memoria, ma accettarla, darle cittadinanza”.

Fatto tutto questo, Giuseppe Berto andò a morire a Roma, lontano dalla Calabria. Senza fiato, tornò lì da dove era partito, si lasciò alle spalle Monteleone, spense la luce, risalì sulle Stelle di quest’Universo.

autore: Isidoro Pennisi


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