di Lidia Di Lorenzo

Era un appuntamento quasi settimanale con una grande fatica, appuntamento con un giorno pieno di profumi.

Il lavoro della panificazione spettava a tutte le donne sposate. Era un dovere che si assumeva il giorno del sì sull’altare. Principe di tutti i cibi e più gradito di tutti i dolci, era la base dell’alimentazione per gran parte della popolazione del secolo scorso, come è normale in ogni luogo dove l’economia è poco sviluppata.

Dal sacco della farina, presente in ogni casa, veniva prelevata una quantità giusta di prodotto per la confezione di circa otto pezzi di pane e posta in una madia, recipiente di legno, con fondo rettangolare e bordi alti divergenti verso l’esterno, di cui tutte le famiglie si dotavano. Una parte della farina veniva mescolata insieme ad acqua tiepida alla genitrice di ogni panificazione: il lievito madre, piccola porzione di impasto dell’ultima fatica, dal profumo leggermente acidulo, contenente i microrganismi per la lievitazione. Il lievito veniva spesso chiesto in prestito alle vicine e poi restituito in pasta fresca, da esporre, in una piccola ciotola, all’essiccazione naturale, per la fermentazione e la produzione dei batteri. Così esso passava di mano in mano, si dissolveva nel composto e si rigenerava, gelosamente conservato in una credenza che olezzava graziosamente di rancido. Si creava tra le donne una specie di rete di solidarietà, di fronte all’ufficio più impegnativo e sacro della settimana.

Il primo impasto veniva lasciato crescere nella madia per alcune ore, finché si riteneva pronto per lievitare tutta la massa. Quindi con aggiunta di altra acqua, tutta la farina veniva coinvolta e lavorata a lungo con grande impegno delle braccia. Il risultato finale era relativo al tempo dedicato alla lavorazione. Dopo una seconda lievitazione si procedeva a sezionare il tutto in piccole quantità, che arrotondate a formare dei morbidi panetti, venivano messe a riposare nelle apposite cestine di vimini, protette da un panno infarinato.

Era difficile prevedere i tempi perché le canestrelle si riempissero, in quanto tutto dipendeva dalla maturazione del lievito, dal lavoro dedicato e dal clima esterno, che poteva favorire o rallentare la crescita. Non di rado era nel pieno della notte o alle prime luci dell’alba che avveniva il miracolo: i contenitori traboccavano e bisognava procedere alla cottura. A questo punto entravano in campo gli uomini che preparavano il forno. Vi introducevano fascine di legna sottile che producevano la brace ardente, capace di infuocare la cavità, e attizzavano la fiamma con un lungo robusto furcone, esponendo il viso alle roventi vampate. La stretta bocca era rivestita di un arco di ferro e quando questo sbiancava fino alla metà, in fretta si procedeva a rimuovere la brace e a spazzare la cenere, con una lunga scopa fatta di felci o di rami di quercia. Subito dopo con una panara, si sistemavano le pagnotte, direttamente sulla base, con un abile movimento della lunga pala, dopo aver disegnato su ognuna di esse, con una lama, il segno della croce. Non prima di un’ora si ispezionava cautamente la cottura, aprendo la bocca del forno, che era stata sigillata con un coperchio di ferro e cenere bagnata. Si valutava il procedimento, e intanto, se si poteva, era tempo anche di inserire la teglia con un bel pollo ruspante, sgozzato senza pietà, lavato e fatto a pezzi, in un letto di patate speziate. Al secondo esame, cioè alla seconda affacciata, si poteva inserire la pizza, fatta con un poco di pasta lasciata da parte e condita con pomodoro, aglio, olio di oliva e rametti ispidi di origano, raccolto sulle montagne. Si trattava ora solo di aspettare il momento in cui un fragrante, stimolante profumo si diffondeva a largo raggio. A quel punto tutto era pronto, in quanto l’esperienza aveva reso esperte le donne nella sincronizzazione delle varie cotture.

La panificazione, purtroppo, non era neanche essa democratica. L’ingrediente di base usato, dipendeva dalle condizioni economiche delle famiglie. Molti potevano utilizzare solo farina di granone a più basso prezzo, e in tempo di guerra si dice usassero anche l’orzo macinato, con il risultato di produrre un pane piene di pule. Chi possedeva qualcosa in più si poteva permettere di mescolare la farina di grano a quella di mais e finalmente i più agiati adoperavano solo farina di grano. Tuttavia  agli indigenti non era impedito di assaggiare pane più raffinato. Ed era quando, gravemente ammalati o in punto di morte, i familiari si adoperavano di procurare loro un cibo migliore. Alla domanda pietosa: <Come sta>, riferendosi a persona in gravi condizioni, per indicare la triste situazione, preludio al passaggio ad una vita migliore, si aveva l’abitudine di rispondere: <Sta a pane di grano>.

Poi vennero il frigorifero, il lievito di birra e i panificatori di professione. Fu tutto più semplice e la panificazione domestica passò ad alimentare il capitolo delle tradizioni scomparse.

autore: Lidia Di Lorenzo


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